Riflessioni sul testo di Diego Marconi
Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014

 

Il più o meno recente testo di Diego Marconi, Il mestiere di pensare, è un appassionato pamphlet con a tema il ruolo della filosofia oggi, la sua natura ormai specialistica e la trasformazione del filosofo in un vero e proprio professionista.

Vorrei subito illustrare quello che secondo me è il grande merito di questo libro di Marconi, vale a dire quello di criticare la figura tradizionale del Grande Filosofo e di proporne il superamento. Siamo infatti abituati a pensare alla filosofia in primo luogo come a una collezioni di grandi pensatori, di figure geniali e dall’intelletto straordinario che si sono fatte attori di profonde riflessioni. Questo modo di concettualizzare la filosofia deriva, io credo, da un certo modo in cui abbiamo appreso la sua storia, all’università e prima ancora alle superiori. Ci sono i Presocratici, poi Socrate, Platone, Aristotele e via via sino ad arrivare ai giorni nostri: a Heidegger, Quine, Rawls e compagnia bella. La storia della filosofia è pensata come una storia di grandi eroi del pensiero, letti ed interpretati in una narrazione più o meno coerente e che aspira a percorrerli tutti. Questo modo di vedere le cose può però essere criticato da diversi punti di vista. Si potrebbe ad esempio sottolineare il carattere identitario di questa forma di narrazione, di un racconto che in fondo pretende di partire dalla Grecia, passare per Roma, Parigi e Berlino e arrivare al contemporaneo Occidente. Un’altra strada potrebbe essere quella di porre in questione la scarsa attenzione che tradizioni di pensiero minoritarie hanno ricevuto. Il Grande Filosofo è pur sempre un signore bianco e maschio, e non è da escludere che il fatto che il nostro modo di pensare la filosofia sia modellato su figure di questo tipo contribuisca alla chiusura che è tipica di quest’area disciplinare (su questo tema c’è un bel video di Catarina Dutilh Novaes).

Il mestiere di pensare, Marconi, cover

L’analisi di Marconi va tuttavia in un’altra direzione e riflette attorno alla trasformazione in senso specialista della figura del filosofo. Il numero di filosofi, sottolinea Marconi, ha visto nel giro di un secolo una crescita impressionante e questo ha comportato alcuni cambiamenti nel loro ruolo e nelle loro funzioni. Da Grandi Filosofi, cioè da intelletti geniali che contemplavano la totalità del sapere filosofico e scrivevano di logica, metafisica ed etica, i filosofi hanno dovuto specializzarsi. A questa comune necessità si sono presentate sostanzialmente tre diverse risposte: la storia della filosofia, l’ermeneutica e la filosofia analitica. A prescindere dal contenuto specifico di queste tre diverse tradizioni, esse sono accomunate dal rigetto della figura del Grande Filosofo come punto di riferimento. Nel suo testo Marconi descrive questa trasformazione in termini abbastanza neutrali, interpretando lo specialismo come una necessaria risposta alla proliferazione dei filosofi. Qui vorrei però aggiungere un elemento valutativo. A dispetto della nostalgia che uno potrebbe avvertire, credo che non ci siano buone ragioni per sentire la mancanza del Grande Filosofo. Un primo motivo è legato a quanto ho accennato prima: lo stereotipo del Grande Filosofo contribuisce a una certa immagine della filosofia, a mio avviso negativa e fastidiosa, presentandola come disciplina maschile, bianca e riservata a persone geniali, superiori agli altri per capacità e intelletto. Un secondo aspetto, invece, è da rintracciarsi nella relazione che c’è fra la figura del Grande Filosofo e l’idea che il sapere, in particolare quello filosofico, sia una proprietà dei singoli individui, meglio se geniali e con una qualche aura aristocratica. L’idea che Marconi vi oppone, quella del filosofo come professionista, è quindi una sorta di “normalizzazione” del filosofo, che va apprezzata come apertura in senso democratico di questa figura. Se il filosofo si sente a disagio nelle vesti di un professionista è solo perché fa implicitamente sua la vecchia contrapposizione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Respingere la figura del Grande Filosofo significa quindi criticare questa vecchia distinzione, quale residuo di antichi valori che non hanno più diritto di esistere. Non c’è infatti alcuna ragione di considerare la filosofia come essenzialmente diversa da altre attività: quello di filosofo può essere un mestiere tanto quanto quello di vetraio, avvocato, operaio o panettiere. All’idea eroica del Grande Filosofo si può quindi contrapporre un modo più prosaico – ma non per questo meno rilevante o interessante – di intendere il ruolo del filosofo e della filosofia. C’è solo da guadagnare da una prospettiva che intende la filosofia come lavoro collettivo e come forma di riflessione portata avanti da una comunità di pari che lavora insieme in modo collaborativo. Si potrebbe altresì dire: alla filosofia non servono genî, ma onesti praticanti.

A questa nuova immagine della filosofia e del suo lavoro si possono però opporre alcune obiezioni. Un primo aspetto riguarda la dimensione sociale, politica e culturale del lavoro filosofico. La fine del Grande Filosofo sarebbe al contempo l’uscita di scena della filosofia dal dibattito pubblico e l’indice che essa è sempre più «costretta all’ambito accademico», per usare la felice espressione di Riccardo Carlucci nella sua recensione al testo di Marconi qui su Spazio Filosofico. Credo che questa obiezione colga in parte nel segno ma che vada al contempo ridimensionata. Che la figura del filosofo sia «costretta all’ambito accademico» non è infatti tanto la tesi di Marconi, quanto un fatto reale che abbiamo tutti sotto gli occhi. È un evento che esiste e con cui, ci piaccia o no, dobbiamo fare i conti. La limitazione del lavoro del filosofo entro i confini dell’accademia è in fondo legata alla scomparsa dell’intellettuale pubblico e alla sua sostituzione con l’opinionista televisivo o l’influencer. Con questo non voglio affatto negare che esistano siti internet, trasmissioni radiofoniche e televisive che danno spazio a persone competenti e di valore, ma è altresì chiaro che è difficile pensare che oggi possano esistere intellettuali con un ruolo simile a quello che vestirono autori come Pasolini o Marcuse. È venuta meno quella contiguità fra mondo universitario, cultura e politica che ha caratterizzato almeno un tratto del Novecento. Sembrano inoltre essersi assottigliati, all’interno dell’accademia, gli spazî e le possibilità di discussione critica che permettevano di smuovere e rilanciare il dibattito al suo esterno. È difficile non vedere in questo un segno della trasformazione in senso neoliberista delle università, sempre più oggetto di dispositivi valutativi che ne indirizzano le scelte politiche. Quello cui si assiste è forse la separazione fra il mondo accademico e i centri di elaborazione politica e culturale. Da questo punto di vista è molto interessante il commento che Simon Hewitt ha dato a proposito della scomparsa di Marx e della tradizione marxista dai programmi di filosofia politica del Regno Unito: «Forse Marx appartiene ai margini di un’accademia sempre più neoliberale. […] Ma i margini dell’accademia non sono la stessa cosa dei margini della società. Potrebbe in fondo essere che Marx trovi una collocazione più appagante che quella di un programma di filosofia» (trad. mia). Per quanto possa suonare triste, può darsi che non abbia semplicemente più senso pensare che l’accademia abbia ancora un ruolo politico, una funzione culturale generale che travalichi i suoi ristretti confini disciplinari. Si tratterà allora di trovare nuovi luoghi, nuovi spazi di discussione dove queste forme di pensiero possano sorgere. Rispetto a quest’ordine di considerazioni va puntualizzato che Marconi non tocca esplicitamente questi temi, ma è effettivamente possibile che nelle sue riflessioni emerga un modo di intendere il lavoro del filosofo che mette al centro il mondo accademico. Credo tuttavia che, più che criticare la proposta di Marconi, sia essenziale comprendere cosa sia che costringe oggi la filosofia entro le mura universitarie. La proposta di Marconi riguarda infatti il come, all’interno dell’accademia, debba venire praticata la professione di filosofo e non esclude di per sé che questo mestiere abbia un seguito fuori dal mondo universitario. Sono la realtà delle cose e i mutamenti in atto ad allontanare il filosofo dalla politica e dal mondo della cultura.

Quella che qui vorrei rivolgere al testo di Marconi è una seconda critica, meno politica e più filosofica. Nel Mestiere di pensare sono infatti sostenute in parallelo due tesi: assieme alla difesa del professionismo in filosofia e al conseguente ripudio della figura del Grande Filosofo, Marconi procede in questo testo a difendere la filosofia analitica, come forma di riflessione che più si adatterebbe alle nuove esigenze di professionalizzazione e specializzazione. Per raggiungere questo fine egli è però costretto ad offrire una definizione piuttosto vuota e generica del modo analitico di praticare la filosofia. Un testo filosofico appartiene alla tradizione analitica nel caso in cui è: 1) teorico e non ermeneutico, 2) argomentativo e non dogmatico, 3) rigoroso e non rapsodico, impreciso o oscuro 4) un contributo a una discussione in corso (cfr. p. 74). Tuttavia, che questi criteri servano veramente a identificare la filosofia analitica è molto dubbio. L’impressione è che Marconi dia una definizione eccessivamente generica e che finisce per caratterizzare ogni forma di filosofia portata avanti in serietà da una comunità di ricercatori. L’unica qualificazione sostanziale è quella per cui si deve trattare di filosofia “teorica”, appellativo volto essenzialmente ad escludere la tradizione ermeneutica. Questa scelta definitoria rischia però di concludersi in una mossa retorica. Marconi sembra in sostanza optare per una definizione ad hoc della filosofia analitica che serve a confermare la tesi per cui la filosofia analitica è la forma di riflessione che meglio si conforma all’esigenza di professionalizzazione e specialismo. Per criticare la definizione di Marconi e quindi la sua implicita identificazione fra filosofia analitica e filosofia professionale vorrei qui presentare sinteticamente due esempi di programmi di ricerca filosofici. In entrambi questi casi si hanno delle forme di riflessione filosofica che sono conformi ai punti 1-4 di Marconi, ma che tuttavia non sembra aver senso qualificare come esempi di filosofia analitica:

  1. La filosofia Scientifica: questo programma di ricerca ha il suo attuale centro a Monaco di Baviera ed è legato al Munich Centre for Mathematical Philosophy. La rivista attorno a cui ruota, cioè Erkenntnis, ha cambiato recentemente il suo sottotitolo da An International Journal of Analytic Philosophy ad An International Journal of Scientific Philosophy. Per quanto sia probabile che Marconi veda anche in questa prospettiva un esempio di filosofia analitica, resta il fatto che i filosofi che vi fanno riferimento, ad esempio Hannes Leitgeb e Stephen Hartmann, abbiano sentito l’esplicito bisogno di prenderne in qualche modo le distanze, richiamandosi al Neopositivismo e caratterizzandosi come “scientifici” invece che “analitici”.
  2. La fenomenologia: la famosa corrente filosofica fondata a inizio Novecento da Edmund Husserl. Per quanto si possa ritenerla una tradizione “continentale”, sembra altresì ragionevole qualificare molti dei contributi filosofici prodotti oggi da questa tradizione come conformi ai punti 1-4 che Marconi identifica. Filosofi quali Dagfinn Føllesdal, Mirja Hartimo, Walter Hopp, Dan Zahavi e Richard Tieszen hanno spesso pubblicato sulle stesse riviste su cui pubblicano i filosofi analitici. Tuttavia, benché essi perseguano nei loro lavori i punti 1-4 che caratterizzerebbero la filosofia analitica, questa etichetta non sembra per nulla adatta a descrivere il tipo di lavoro filosofico che la fenomenologia persegue.

A queste due tradizioni se ne potrebbero aggiungere altre, anch’esse accomunate dal fatto di rispecchiare i criteri fissati da Marconi per la filosofia analitica ma di non essere tuttavia ad essa riducibili. Il pensiero femminista e il marxismo, nonché le riflessioni di autori quali Wolfgang Künne, Peter Simons o Kevin Mulligan – in gran parte sorte dalla rivalutazione di Bolzano e della filosofia austro-tedesca – sono tutti esempi di riflessioni che rispettano i desiderata di Marconi ma che pure non è immediato etichettare come analitiche. Mi sembra quindi ragionevole ritenere che la difesa che Marconi fa della filosofia analitica si poggi su di un equivoco: essa dipende dal presupposto che solo la filosofia analitica sia condotta in modo professionale e cooperativo.

Il limite appena rintracciato nelle riflessioni di Marconi permette di muovere alcune ultime considerazioni e di indicare la possibilità di una critica al modo unilaterale di intendere la filosofia che la prospettiva analitica sembra presentare. In precedenza ho criticato la figura del Grande Filosofo. Va però tenuto a mente che il Grande Filosofo non è la Grande Filosofia e che la critica al primo non coincide con la critica alla seconda. Se ha senso opporsi all’idea che la filosofia sia portata avanti da figure solitarie ed eroiche, diverso è negare alla filosofia la possibilità del sistema, l’aspirazione a ricomporre in unità le numerose analisi minute che fanno parte del suo senso e scopo. Questo aspetto della filosofia è un lato in cui oggi è carente la filosofia analitica, che risulta spesso incapace di reinserire le sue analisi locali in un quadro sistematico, nell’orizzonte di un più generale programma di ricerca. In fondo la stessa incapacità che ha Marconi di dare una definizione contenutisticamente ricca del paradigma analitico è indice di questo problema. Non sembra possibile trovare dei caratteri generali che accomunano realmente ciò che va sotto l’etichetta di filosofia analitica. A dispetto della sua mancata realizzazione pratica nel contesto analitico, però, resta pressante l’esigenza teorica della Grande Filosofia. Permane cioè il bisogno di una riflessione che cerchi di rimettere assieme i pezzettini prima analizzati. Questo non significa far rientrare dalla finestra il Grande Filosofo, prima cacciato dalla porta, ma vuol dire piuttosto richiamare la comunità filosofica alla necessità di integrare il momento di riflessione analitico con quello sistematico e sintetico. Come ogni altra disciplina, e forse ancor di più, la filosofia ha l’esigenza di trasferire il sapere dagli articoli ai manuali, di depositare le conoscenze in una forma organica, capace di sopravvivere al singolo pensatore e percorrere le generazioni.

 

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“Il mestiere di pensare” è un manifesto di Jansan Favazzo