Riflessioni sul testo di Diego Marconi
Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014

Il libro di Marconi mi pare un’interessantissima difesa dello specialismo in filosofia e della filosofia analitica come miglior espressione dello specialismo.

Lo specialismo è per l’autore, prima che buono, inevitabile e ciò a causa soprattutto della proliferazione di filosofi e quindi di ricerca filosofica.

Lo specialismo in seconda battuta risulta anche fecondo, visto che, nonostante o persino grazie alla settorializzazione degli studi, alcuni problemi vengono risolti per davvero e si tratta talora di soluzioni rilevanti per tutti, come emerge dall’esempio sul linguaggio privato in Wittgenstein.

Certo con l’egemonia specialistica capita che si perda un po’ della grandeur filosofica del tempo andato, che si debbano salutare i sistemi onnicomprensivi e concentrarsi su porzioni limitate del pensiero, rinunciare alla comunicabilità spicciola della riflessione, rassegnarsi alla scomparsa dei Grandi Filosofi (son d’accordissimo su quest’ultimo punto con Quadrellaro: poco male), parlare un linguaggio lievemente iniziatico, ma insomma, così vanno le cose: un po’ di sacrosanto pudore può ben convincere gli eredi di Platone e compagnia a svolgere il ruolo dell’ onesto artigiano, mestiere peraltro nobilissimo, e smettere i panni, spesso davvero soffocanti, del geniaccio di professione.

Il filosofo, una volta riconosciutosi artigiano, coscienza umile, dovrà essere consapevole dei limiti che lo specialismo implica e dunque industriarsi a dialogare con le altre discipline (sennò si perdono pezzi) e, magari, dedicarsi anche alla divulgazione, certo più utile della chiacchiera colta sui giornali o in tv.

È anche una questione di stile: la novella figura fenomenologica dell’accademico non dovrebbe baloccarsi con l’alta cultura fine a sé stessa, ma piuttosto badare al sodo.

In tal senso la filosofia analitica risulta più coerente con lo specialismo di quanto sia quella continentale, dove un autore può essere apprezzato senza essere capito, quasi come si trattasse di una bella melodia (su questa analogia c’è un divertente articolo di Guido Vitiello).

Intendiamoci, anche gli analitici hanno i loro difetti e bisogna un po’ strigliarli perché talora trascurano la storia della filosofia e snobbano le altre tradizioni filosofiche del Novecento come la fenomenologia e l’ermeneutica.

Il mestiere di pensare, Marconi, cover

L’analitico dovrebbe invece intendere la storia della filosofia come capiente serbatoio di idee e ammettere che anche in compagnia di Husserl e Gadamer si può diventare un buon artigiano, a patto di argomentare come si deve.

In ogni caso, anche se talora digiuno di storia e un poco autoreferenziale, va proprio ammesso che questo nostro filosofo analitico i suoi risultati li ottiene. Certo, spesso questi risultati non vengono riconosciuti fuori dall’accademia perché, appena emersi, vengono fagocitati dal più autorevole mondo della scienza, scomparendo dal dominio della filosofia, ma pure su questo aspetto si tratta forse di armarsi di umiltà e accettare una certa marginalità, a meno di non voler tentare la strada della rivendicazione sindacale.

A dirla poi tutta è falso che la filosofia oggi conti meno di ieri; le età rimpiante sono molto meno dorate di quanto si creda e comunque i lamenti funebri sono quasi sempre irritanti.

La filosofia, che ancora ha un suo senso, procede perché i problemi continuano ad affastellarsi e quello degli analitici è un nuovo canone filosofico, di vocazione specialistica, con tanto di tradizioni, regole e anche, perché no, araldi e bardi, architettato via via per risolvere almeno un po’ di questi problemi: bisogna infine riconoscerlo tutti.

Se questo, scontati gli ovvi limiti delle mie sinossi e interpretazioni, è il manifesto specialistico/apologia analitica di Marconi (Carlucci e Dei Giudici) come nota Dei Giudici bisogna rilevare che è già l’autore del libro ad avvisare i lettori dei rischi dello specialismo nonché a mostrare come da un problema di settore si possa risalire alla questione generale in modo piuttosto agevole.

Si deve poi dire che sono fondate la lamentele di Quadrellaro sulla occorsa demarcusizzazione del filosofo, dato lo sfumare della contiguità tra accademia cultura e politica, e quelle, per certi versi più radicali, di Carlucci sull’assottigliarsi della rilevanza pubblica dell’intellettuale, anche se uno potrebbe pure rigettarle, trovandosi per esempio d’accordo con le tesi espresse da Nietzsche nello Schopenauer educatore.

Va ancora aggiunto che certamente stimolanti sono i prudenti richiami alla meraviglia di Baracco (vero è che ce ne vorrebbe sempre di più nella filosofia ma, potremmo chiosare, nella vita in genere!) e quelli più radicali di Dei Giudici, la quale vede, canonizzando Platone, nello thaumazein la fonte necessaria di ogni filosofare, ma, pure qui, uno legittimamente potrebbe dissentire, sostenendo di aver cominciato a barcamenarsi con il pensiero teoretico per altre ragioni che non lo stupore misto a timore.

Forse allora la questione, emergente dalle alternative squadernate (settorialità o discorsi larghi, ruolo pubblico o privato, meraviglia o altro) è più generale e così suona: che cos’è la filosofia?

Marconi stesso individua il punto dicendo con grande nettezza che «i filosofi analitici perlopiù non vedono che gli standard che essi professano di rispettare dipendono da una certa identificazione della natura della filosofia» e nel suo contributo Baracco lo mette in prospettiva, spiegando che in fin dei conti è una faccenda di paradigmi.

L’autore del libro, dunque, propone un paradigma nel quadro del quale un contributo scientifico per risultare analitico debba essere teorico, argomentativo, rigoroso e inserirsi in una discussione già in corso.

Ora, si può o meno condividere tale paradigma, come l’autore del libro specifica, se ne possono criticare alcuni elementi, ma tant’è, a chi scrive sembra un paradigma interessante, dal quale anche gli autori di altra scuola avrebbero certamente da imparare (come gli analitici avrebbero da imparare qualcosa dai continentali, e un poco il filo-analitico Marconi ce lo dice).

Verrebbe però da porre una questione ulteriore, rivolgendola un po’ ai filosofi accademici di ogni rito: se “che cos’è la filosofia?” è la domanda, qual è il soggetto legittimato a dare la risposta?

Pare che Marconi sostenga, in difesa dello specialismo accademico, sebbene non presentandolo come argomento principale, l’elemento cooperativo che caratterizza la comunità accademica.

Per quanto la sua visione del filosofare sia certamente veritativa, il contesto entro il quale di verità si tratta più proficuamente è per l’autore quello consensualistico della società di pari del mondo universitario.

Certo Marconi nota il fattaccio sociologico che la ricerca è legata strettamente a vicende su posti di lavoro, ma non precipita mai nel foucaultismo facilone secondo il quale la verità sarebbe del potere un semplice effetto ottico, presentando altresì le virtù di un modello di filosofare non solipsistico.

Il tratto comunitario della ricerca filosofica contemporanea non è per l’autore causa necessaria di conformismo intellettuale ed anzi il progresso delle idee, almeno di alcune, è patente.

Inutile poi cercare oggi più di ieri un grande numero di apocalittici e immaginatori di nuovi mondi, «d’altronde i profeti ribelli non abbondavano nemmeno nella Grecia di Platone e Aristotele» e tutt’oggi abbiamo pur sempre Badiou, Žižek e qualcun altro.

Per il resto c’è il lavoro paziente della maggioranza di una comunità composta da onesti lavoratori, tra cui ovviamente chi più bravo, chi meno.

Adottando altre, o parzialmente altre, concezioni della filosofia altro si sostiene e, come emerge dalle critiche prima estrapolate dai contenuti già comparsi su Spazio Filosofico, si può invocare per il pensiero filosofico più politica, più visione d’insieme, più meraviglia e, volendo, sarebbe anche legittimo sostenere che teoreticità, chiarezza e argomentazione debbano contare meno di quanto Marconi desideri.

Un’altra critica che potrebbe balenare scaturisce direttamente dalla domanda sul chi si pone il quesito “che cos’è la filosofia?” e riguarda l’appena richiamata composizione della comunità accademica, in un senso però tutt’altro che sociologizzante.

Se si crede che ciascuno legittimamente scelga la propria definizione di filosofia, aderendo a o fondando un paradigma, ben potrà esistere colui il quale non creda alla democrazia epistemologica, cui l’università è almeno idealmente improntata.

Il tal filosofo epistemologicamente antidemocratico, e magari antidemocratico tout court, avrà difficoltà a considerare necessario il doversi inserire in un dibattito già in corso, accettandone le regole; magari riterrà che gli scenari di progresso siano non troppo rosei e comunque potrebbe voler disinteressarsene del tutto; crederà forse che la risoluzione di un problema, posto che la pensi possibile, sia meno filosoficamente importante di una qualche ribellione al senso comune, sempre che abbia voglia di inscenarla.

Se si accetta la precondizione dei paradigmi in antitesi gli uni con gli altri (e manco questo forse è scontato: si aprirebbero qui enormi problemi), bisogna concludere (feyerabendismo…) che il tal filosofo non abbia più o meno ragione di Marconi o di noi che interveniamo a commentarne il testo.

Se alla domanda sul chi debba rispondere al quesito “che cos’è la filosofia” si risponde “ciascuno”, così pare stiano le cose, a meno di non sostenere che una qualche maggioranza abbia più ragioni del singolo interrogantesi (ma di nuovo: chi può affermare questa tesi?).

Marconi ha però scritto un manifesto, che, come si sottolineava in apertura, è molto interessante e chiaro, descrive una situazione storicamente data, facendo osservazioni e dando qualche argomentato giudizio, mentre il tal filosofo deve eventualmente ancora scrivere il suo e forse non sa da dove cominciare.

Quando mai il tal filosofo si accingerà, ognuno potrà dire se è più convinto da una visione specialistica della filosofia, dal canone analitico, dal ruolo della comunità accademica o se invece da altre tesi.

Ognuno si sceglierà il paradigma che ritiene migliore, o cercherà punti mediani tra i due, e tra altri.

Di sicuro il filosofo antidemocratico ha da trarre giovamento a leggere il testo di Marconi, da cui magari sarà in parte persuaso, grazie al quale mitigherà alcune idee forse troppo anarcoidi, imparando ad apprezzare di più il ruolo della chiarezza, del rigore, della cooperazione e di altro.

Converrà anch’egli sul fatto che i profeti ribelli non sono mai abbondati, saprà bene che Aristotele era un genio, ma volendo potrà sempre preferirgli Diogene.