Riflessioni sul testo di Diego Marconi
Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014

 

Vorrei proporre qualche riflessione intorno a un testo di Diego Marconi che ha ormai qualche anno, ma che non ha ancora perso la sua attualità: Il mestiere di pensare. Nonostante il testo sia breve, credo contenga una serie di spunti e di questioni rilevanti, interessanti sia per un pubblico più vicino alle problematiche filosofiche, sia per chi conosce o legge di filosofia per pura passione o semplice curiosità.Il mestiere di pensare, Marconi, cover

Già il titolo del testo, a mio parere, è particolare e in un primo momento dovrebbe lasciarci perplessi: può il pensare, un’attività che ci sembra comune, quotidiana e quasi scontata, aspirare a diventare un qualcosa di specifico, svolto solo da professionisti? Marconi nel corso del testo ci invita a fare proprio questo: considerare un certo modo di esercitare il pensiero come ad un vero e proprio mestiere, con una sua dignità e di conseguenza con i suoi obbiettivi, compiti e requisiti specifici per essere svolto. I professionisti di questo mestiere saranno quindi i filosofi di professione, se mi si permette la ripetizione, ovvero coloro i quali svolgono un’attività accademica e fanno parte di una comunità, in cui il dibattito è organizzato secondo principi scientifici. Questa per Marconi, più che essere una scelta, sembra essere una presa di coscienza del momento storico in cui viviamo: la filosofia non ha ancora perso il suo “mordente”, è ancora considerata importante e negli ultimi centocinquant’anni è aumentato esponenzialmente il numero di studiosi e professori che si dedicano a essa nonché il numero di pubblicazioni e riviste sulla materia (si vedano gli interessanti dati che Marconi riporta e commenta alle pp. 8-12); eppure l’epoca dei “Grandi Filosofi” si è definitivamente conclusa, il che vuol dire che geni  capaci «di dominare  un sapere sterminato e di produrre una sintesi convincente e – soprattutto – originale, cioè del tutto nuova perché frutto di una capacità di visione assolutamente unica» (p. 18) non sembrano più essercene in giro. La soluzione percorribile è quindi quella dello specialismo, che Marconi propone per non cadere nelle alternative del dilettantismo o della inventiva tematica, le quali portano rispettivamente o a parlare superficialmente e con poca conoscenza specifica di temi invece molto profondi, o a connettere argomenti molto distanti tra loro per produrre “discorsi a effetto” e poco più. «La scelta specialistica ha invece il grande pregio di consentire anche agli studiosi normali di fare un lavoro di ricerca onesto e sensato (e quindi di incrementare la quantità di ricerca onesta e sensata)» (p. 16) e permette anche di dominare la vastissima letteratura scientifica ormai disponibile su un singolo argomento e di aggiornarsi sugli ultimi dibattiti e sulle posizioni più rilevanti. Uno stile di lavoro, questo, che lui stesso definisce «artigianale» e che sembra essere stato adottato con consapevolezza dalla filosofia analitica, tradizione che Marconi confronta con altri due possibili modi di esercitare il pensiero filosofico, l’ermeneutica e la riflessione storico-filosofica, finendo con il preferirla per la serietà e i criteri con cui la ricerca si svolge in questo ambito. Non mancano inoltre anche le critiche alla bassa qualità con cui la filosofia viene divulgata mediaticamente, nonostante la continua proliferazione di dibattiti o festival a tema filosofico (pp. 50-51), come le osservazioni sul fatto che in Italia non sia presente né una comunità filosofica in dialogo né premi scientifici alla ricerca degni di questo nome, cosa invece comune nei Paesi anglosassoni e anche in altri Paesi europei (p. 53). Non sembra essere un caso quindi che siano proprio questi i Paesi in cui la filosofia analitica è quella più praticata e in cui gli “addetti ai lavori” svolgono consapevolmente il loro compito di filosofi “nell’epoca del professionismo filosofico”. Intendiamoci, per Marconi anche la storia della filosofia ha una sua importanza e, anzi, sarebbe bene studiarla per aver ben presente le alternative teoriche che sono già state realizzate storicamente, per capire il modo in cui esse sono state sostenute o criticate e per non cadere nuovamente nel dilettantismo; questo modo di riflettere filosoficamente deve avere una sua rilevanza anche per lo specialista, tanto che a questo e ad altri punti simili l’autore dedica tutto l’ultimo capitolo del testo; ma non bisogna d’altra parte pensare che tutto sia ormai già stato detto e che la filosofia sia ormai finita (pp. 108-109). Gli strumenti analitici possono a loro volta venire in aiuto dello storico per ricostruire le teorie dei classici del passato e per valutare se effettivamente sono così fondamentali e grandiose come pensavamo. Un buon dialogo tra i teoreti e gli storici non può quindi che essere fruttuoso per tutti.

Non c’è dubbio che molto di quello che Marconi dice sia condivisibile e sottoscrivibile. L’impressione generale che il testo mi ha lasciato è però quella di una apologia, mai esplicitamente dichiarata ma che fa sempre da sfondo al discorso. Un filosofo di professione sembra volerci mostrare i motivi per cui proprio quel particolare modo di far filosofia che lui esercita, quello tipico della filosofia analitica, sia il migliore tra quelli possibili al momento e perché sarebbe salutare per il bene della disciplina adeguarsi e difendere quegli standard di lavoro. A sostegno di questa ipotetica chiave di lettura vorrei proporre un paragone, forse azzardato, con un testo per certi versi molto diverso, ma non privo di alcuni elementi in comune con quello di Marconi: l’Apologia della storia di Marc Bloch, opera pubblicata postuma nel 1949 che come sottotitolo ha proprio Il mestiere di storico. In quelle pagine Bloch difende il ruolo, la dignità e i compiti del suo modo di intendere il lavoro di storico e critica altri approcci dati alla materia, frutto del clima culturale positivistico e di obbiettivi o metodi di ricerca diversi. Credo che una parte del lavoro di Marconi sia leggibile proprio in questi termini.

L’altro punto che mi lascia qualche perplessità è il fatto che per Marconi sembra che la figura del filosofo sia ormai, per così dire, costretta all’ambito accademico, senza aver più la possibilità di un ruolo o un impegno pubblico; ci ricorda, credo giustamente, che l’epoca del filosofo “a tutto tondo” è finita, ma vuole anche suggerirci che il rischio di cadere nel dilettantismo o peggio nel ridicolo, che si corre se si vuole far uscire la filosofia dalla comunità di esperti che se ne occupano, è troppo alto per essere intrapreso. Questo non vuol dire che anche la filosofia analitica non debba essere divulgata (si vedano le sue considerazioni alle pp. 81-83), ma che la figura dell’intellettuale-filosofo, che sensibilizza su un tema e si impegna in un dibattito aperto al grande pubblico, non è più permessa nella nostra epoca, in cui il vero filosofo è un “operaio specializzato”. Non so se sia davvero il caso di rinunciare a questo compito che la filosofia ha da sempre avuto o se invece sarebbe necessaria anche qui una riflessione sulla possibilità attuale e sui compiti del “mestiere dell’intellettuale”. Credo però, in ogni caso, che la filosofia come disciplina debba ancora aspirare a poter dire la sua anche sulla scena pubblica e che lo specialismo che Marconi propone sia solo uno dei modi possibili di pensare filosoficamente e con criterio.

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