Riflessioni sul testo di Diego Marconi
Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014

 

Il mestiere di pensare è un manifesto. Vorrei cominciare con questa affermazione, che suona forse un po’ provocatoria (e intende in parte esserlo), perché riassume icasticamente la funzione che questo breve libro può svolgere per un giovane (aspirante) filosofo, che a un certo punto della sua formazione accademica si ritrova a interrogarsi sul senso del proprio mestiere. In breve, come se i guai non fossero già abbastanza, comincia a porsi inquietanti problemi di meta-filosofia.

Il libro di Diego Marconi ha una duplice utilità: cioè tanto descrittiva quanto normativa. Mi soffermerò più a lungo sulla prima, e dirò qualcosa sulla seconda in conclusione. In effetti, una prima impressione che si può avere leggendo questo libro è che la sua domanda fondamentale sia di carattere sociologico: qual è il mestiere del filosofo oggi? Ovvero: qual è la funzione sociale della filosofia nel nostro tempo? La risposta di un non filosofo a domande di questo tipo avrà molto probabilmente a che fare con qualcosa di simile ai talk show o ai (frequentatissimi) festival filosofico-letterari: il filosofo contemporaneo è uno che dispensa opinioni e suggerimenti su qualsivoglia oggetto di conversazione.

Il mestiere di pensare, Marconi, cover

Naturalmente, non è questo il mestiere dei filosofi di professione né l’autentica dimensione pubblica della filosofia. Per cominciare a ragionare di queste cose, bisogna guardare al mondo dell’università: è qui che si esercita il mestiere di pensare, ed è su questo punto che nel libro di Marconi troviamo i dati più interessanti. Sommati insieme, essi ci restituiscono un quadro significativo della moltiplicazione dei filosofi (e dei dipartimenti di filosofia, delle riviste specializzate, delle società…) verificatasi negli ultimi centocinquant’anni. Rispetto ai secoli che ci hanno preceduto, di questi tempi c’è moltissima più gente che filosofa per professione. Le conseguenze naturali sono lo specialismo e, in certa misura, la settorialità. Problema: la filosofia, al contrario delle altre discipline, non può essere specialistica né settoriale; se lo diventa, smette di svolgere la sua funzione di sintesi dei saperi particolari in un’unica e sistematica Weltanschauung.

In verità, sembra suggerirci Marconi, quest’ultimo è uno pseudoproblema. La figura del filosofo artigiano, che padroneggia gli strumenti del mestiere e li adopera nella sua bottega, è quella che più si adatta alle circostanze attuali. Ora questo modello, certo più prosaico di quello del Genio universale che dipinge l’intero cosmo con poche pennellate solitarie, ha dalla sua alcuni vantaggi e precisamente quelli del lavoro comunitario, in cui la disponibilità alla discussione prevale sul principio di autorità e le argomentazioni rigorose sono più importanti delle opinioni autorevoli. Insomma, che la filosofia segua il destino dei (cosiddetti) saperi particolari non è forse un male, se il risultato è l’onestà di un lavoro specifico ma competente, di un piccolo ma sensato contributo a un programma di ricerca. Il prezzo da pagare è l’abbandono dei problemi più generali, più fondamentali – cioè a dire, degli autentici problemi filosofici? Nient’affatto, se è vero che il lavoro del singolo (filosofo o articolo) è sì una tessera ma il risultato complessivo ha le fattezze del mosaico.

Un altro aspetto dell’utilità descrittiva di questo libro riguarda più nello specifico lo stato della filosofia in Italia. Nelle università italiane, osserva Marconi, è dominante ancora oggi un certo stile filosofico che non può essere catalogato né come analitico né come continentale. L’autore adotta, per questa terza categoria, un’espressione mutuata da Hans-Johann Glock: i filosofi tradizionalisti sono quegli studiosi che perseguono lo studio della filosofia tradizionale pur non essendo, in senso stretto, storici della filosofia. L’idea di fondo è che sia preferibile suonare Beethoven piuttosto che comporre nuova musica (magari assai mediocre). D’accordo, e viva l’umiltà; il problema è che, così argomentando, si rischia di confondere l’interprete con il compositore, quando sarebbe forse meglio tenere ben distinte le due figure; insomma, i due mestieri.

Questo tema ci conduce direttamente, in conclusione, a qualche breve considerazione sull’utilità normativa del libro di Marconi. Prima di tutto, fuor di metafora, l’opportunità di distinguere il lavoro del filosofo da quello dello storico della filosofia o dell’esegeta. Essi sono per certi versi complementari, e a filosofare senza conoscere la storia del pensiero si rischia di prender cantonate, ma non per questo è lecito confonderli come fossero una cosa sola. In secondo luogo, la necessità di adottare un codice deontologico peculiare. Marconi offre una breve lista di qualità (p. 74) che un contributo filosofico dovrebbe avere. Per la verità, sono qualità che secondo l’autore contraddistinguono normalmente i lavori di filosofia analitica. Tuttavia si può considerarli semplicemente come tali, e domandarsi se sia auspicabile o meno che ci siano (per la comunità dei filosofi come per quella dei fisici o dei filologi) un linguaggio condiviso, dei modelli argomentativi standard, degli strumenti di lavoro di provata efficacia; se sia corretto o meno adottare la logica, e non la retorica, come paradigma di confronto, e puntare sulla chiarezza e sul rigore piuttosto che sulla rapsodicità e sull’ermetismo.

Si può certamente ammettere che gli articoli filosofici dotati di queste caratteristiche risultano illeggibili a un pubblico di non specialisti (come accade d’altro canto agli articoli dei fisici o dei filologi). È questo davvero un limite dello specialismo contemporaneo? Sembra di no, se è vero che in ogni tempo ci si è posto il problema di come rendere popolari i risultati della filosofia senza snaturarne con ciò il contenuto sostanziale. Dunque quei criteri vanno adottati al solo scopo di collaborare più efficacemente e onestamente tra filosofi? La risposta è sì. Il mestiere di pensare è un manifesto anche perché propone un’etica professionale senza timore di apparire politicamente scorretto: l’esercizio del pensiero, come ogni mestiere degno di essere praticato, costa fatica; e non sarà certo questa richiesta di fatica a impedire alla filosofia di incidere sul resto della cultura.

 

Sullo stesso tema, leggi anche

Filosofia analitica: una professione scientifica? di Flavio Baracco

Che cos’è la filosofia: chi lo stabilisce? di Alessandro Campo

Un’apologia del professionismo in filosofia di Riccardo Yuri Carlucci

La figura del filosofo nell’epoca dello specialismo di Camilla Dei Giudici

Quale rapporto fra filosofia professionale e filosofia analitica? di Davide Emilio Quadrellaro