Riflessioni sul testo di Diego Marconi
Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014

«Mi sento di condividere molte delle tesi di questo libro, eppure non mi sento propriamente un filosofo analitico». Con queste parole, che potrebbero apparire un po’ paradossali, potrei concludere la lettura di questo interessante testo di Diego Marconi. Il titolo recita Il mestiere di pensare e suona un po’ come una provocazione verso quelle modalità di ricerca filosofica che sembrano non rientrare in quello che Marconi identifica come il paradigma della filosofia analitica, e che quindi non meriterebbero di essere considerate modalità di ricerca rispettabili. Il mestiere di pensare è un manifesto, come ci ricorda Jansan Favazzo (nella sua recensione qui su Spazio Filosofico), che indica quali siano i criteri a cui un giovane filosofo (analitico) dovrebbe ambire. Va subito osservato che Marconi sembra essere consapevole dei limiti di questo paradigma, il quale, come ogni paradigma, «dipende da assunzioni sostanziali, che possono essere messe in discussione e lo sono state di fatto». Marconi, infatti, non vuole seguire quei filosofi analitici che sono tentati d’identificare la filosofia analitica con la filosofia tout court. Lungo tutto il testo, invece, l’autore cerca di evidenziare i meriti e al tempo stesso i limiti di questo paradigma. Da queste analisi e dal confronto con le critiche che vengono di solito sollevate alla filosofia analitica, Marconi vuole suggerire che questa modalità di ricerca filosofica sia meritevole di essere perseguita. Ma non solo, e da qui la provocazione: tale paradigma è preferibile agli altri due modi di esercitare il pensiero filosofico maggiormente diffusi al giorno d’oggi, ossia l’ermeneutica e la riflessione storico-filosofica. Nel seguito vorrei illustrare brevemente quelli che reputo essere i meriti di questo testo, per poi soffermarmi sulla caratteristica di scientificità che Marconi sembra attribuire alla filosofia analitica e che penso meriti di essere esplorata con maggiore attenzione. Cercherò, quindi, di capire fino a che punto possiamo attribuire tale caratteristica alla filosofia analitica, e da qui proverò a trarre alcune conclusioni che spero renderanno conto della mia asserzione iniziale.

In questo breve testo vengono affrontate diverse tematiche in modo semplice e chiaro. Vengono toccati, ad esempio, temi quali il rapporto tra filosofia accademica e divulgativa, tra scienza e filosofia, tra filosofia analitica, filosofia continentale e storia della filosofia. L’autore cerca di catturare la nozione di filosofia analitica identificando quei criteri che dovrebbero caratterizzare un contributo filosofico di tale orientamento. Esso deve essere: a) teorico anziché ermeneutico; b) argomentativo anziché dogmatico; c) rigoroso e non rapsodico, impreciso o oscuro; d) contribuire a un dibattito contemporaneo. Credo che questi criteri siano sufficientemente adeguati a caratterizzare questo paradigma, anche se il senso delle nozioni qui impiegate andrebbe precisato con maggior cura per evitare di fraintendere che cosa Marconi reputi un adeguato contributo alla filosofia analitica. Le diverse tesi sostenute in favore di questo paradigma appaiono fin dall’inizio argomentate con grande chiarezza e riescono quasi sempre a rispondere nel merito alle critiche che di solito vengono sollevate. Diversi sono i punti su cui mi sento di poter convenire con Marconi. Ad esempio, condivido l’idea che la filosofia analitica abbia il grande merito di aver promosso e continuare a promuovere una ricerca filosofica “democratica” portata avanti da una comunità di pari che insieme collabora per un fine comune. Sono critico, inoltre, verso un atteggiamento scettico nei confronti della possibilità della ricerca filosofica di produrre nuova conoscenza e risolvere specifici problemi. Alcuni campi di ricerca, come la filosofia del linguaggio o la filosofia della logica, hanno raggiunto notevoli risultati in questa direzione, fornendo risultati fecondi in grado di trovare applicazione ad un’infinità di problemi. Per queste ragioni non credo che la filosofia debba essere necessariamente generalista e occuparsi principalmente delle cosiddette grandi domande. Vi è un lavoro comunitario serio e fruttuoso portato avanti da onesti praticanti, che ha fornito e continua a fornire risultati interessanti a problemi locali. A questo riguardo però devo sollevare alcune perplessità. Concordo con Davide Emilio Quadrellaro (si veda la sua recensione qui su Spazio Filosofico) che oggi la filosofia analitica risulta spesso incapace di inserire le sue analisi locali in un quadro sistematico, di integrare il momento di riflessione analitico con quello sintetico. Marconi stesso, in realtà, sembra rilevare questa problematicità quando osserva che non di rado i filosofi analitici tendono a interessarsi a uno specifico problema intraparadigmatico perdendo di vista il quadro complessivo entro cui quel problema si inserisce, eludendo così «la domanda sul senso della propria ricerca». Ciononostante Marconi non sembra essere molto preoccupato da questa situazione. Al contrario, egli sembra riporre una grande fiducia nella possibilità di accumulare un sapere via via crescente che possa infine essere depositato in forma organica in appositi manuali. Credo che le motivazioni di una visione così ottimistica vadano ricercate nel continuo parallelismo che Marconi ci invita a sostenere. Mi riferisco al parallelismo tra il paradigma della filosofia analitica e il pensiero scientifico. In questo senso Marconi spesso attribuisce una caratteristica di scientificità alla filosofia analitica. Ed è proprio su quest’ultimo punto che vorrei ora soffermare la mia attenzione.

Le considerazioni che seguiranno si riferiscono principalmente a quei campi di ricerca interni al paradigma della filosofia analitica ad esclusione della filosofia del linguaggio, della logica, e di quelle ricerche filosofiche che fanno uso di metodi formali in modo considerevole. Credo, infatti, che questi campi di ricerca meriterebbero una differente analisi e affrontarla in poche righe sarebbe pretenzioso. Ciononostante tale restrizione non inficia le mie osservazioni dal momento che nessuno più oggi sembra identificare la filosofia analitica con una riflessione sul linguaggio o sulla logica, o considera rilevanti solo ricerche filosofiche che impiegano metodi formali. Sono moltissimi oggi i filosofi analitici, infatti, che si occupano di campi di ricerca che poco hanno a che vedere con tutto ciò, come ad esempio coloro che si occupano di filosofia della mente o della fisica, oppure di metafisica.

Il mestiere di pensare, Marconi, cover

Quello su cui ora vorrei riflettere un po’ riguarda la nozione di scientificità. Mi sembra vi siano tre principali sensi in cui si possa intendere questa nozione. Un primo senso, che potremmo definire forte, rimanda all’ideale classico della Scienza: (i) un sapere unitario organizzato per campi disciplinari, ognuno dei quali è caratterizzato dai suoi specifici problemi locali, (ii) via via sempre più cumulativo, (iii) in cui le sue affermazioni non sono accidentali, ma necessarie e adeguatamente dimostrate. Gli Elementi di Euclide, ad esempio, hanno rappresentato per molti secoli un esempio di questa nozione. La filosofia analitica non sembra essere scientifica in questo senso. Non sembra facile, infatti, trovare tesi la cui validità sia riconosciuta come indubitabile e assolutamente necessaria. Al contrario, è comune prassi che una qualunque tesi possa diventare oggetto di un nuovo dibattito. Si potrebbe però obiettare che nemmeno il pensiero scientifico odierno goda di queste caratteristiche. Questo è piuttosto corretto, e qui arriviamo al secondo senso in cui possiamo intendere la nozione di scientificità. Possiamo indicare come standard questo senso e legarlo alla nozione di scienza che maggiormente sembra rispecchiare lo stato attuale del sapere scientifico: (i) un sapere unitario organizzato per campi disciplinari, ognuno dei quali è caratterizzato dai suoi specifici problemi locali, (ii) via via sempre più cumulativo, (iii) in cui le sue affermazioni sono largamente condivise dalla comunità di riferimento, e nonostante sia contemplata la possibilità di rivedere la loro validità, tali affermazioni godono di un certo grado di autorevolezza che permette loro di essere depositate in manuali e tramandate alle nuove generazioni. Come dicevamo prima, anche su questo punto il paradigma della filosofia analitica (ad esclusione, ripeto, di quei campi di ricerca menzionati prima) non sembra rispecchiare adeguatamente questo ideale di scientificità. Allo stato attuale delle cose sembra difficile individuare un insieme di tesi largamente condivise dalla comunità che possano costituire un manuale di riferimento per le nuove generazioni. Ad esempio, un manuale di filosofia della mente o della fisica, oppure di metafisica. Infine, vi è un terzo senso in cui credo possiamo parlare di scientificità, che definirei debole: (i) un sapere unitario organizzato per campi disciplinari, ognuno dei quali è caratterizzato dai suoi specifici problemi locali, (ii) in cui differenti tesi e rispettive argomentazioni vengono esplicitate, comparate e scrupolosamente classificate, ma senza per questo permettere la costituzione di un sapere cumulativo la cui validità sia largamente condivisa dalla comunità di riferimento. La filosofia analitica sembra aver raggiunto questo modesto, ma pregevole risultato. Per ogni campo disciplinare, infatti, è possibile ritrovare esposti con grande chiarezza quali siano i principali problemi e quali soluzioni argomentative siano state avanzate finora. Nel corso della storia molti di questi problemi sono stati affrontati, ma mai come oggi essi vengono scrupolosamente analizzati, comparati e classificati.

A questo punto, sorge una domanda spontanea: una filosofia scientifica in un senso debole costituisce un problema? Un prima risposta potrebbe essere: certamente no. In fondo l’incapacità della filosofia di costituirsi come scienza in un senso forte o standard non costituisce una grande novità nella storia della filosofia. Così è sempre stato, e non si capisce perché dovremmo ora stupirci. Potrei essere d’accordo, se non che vi è una differenza sostanziale rispetto al passato. Questa mancanza di “scientificità autentica” (seppur la nozione di autenticità, o verità, sia stata concepita secondo diverse forme a seconda del periodo storico) ha spesso costituito un “problema di base” per la riflessione filosofica nel corso della storia. Al giorno d’oggi, invece, sembra che questa mancanza venga tollerata o semplicemente ignorata. E questo non avviene in virtù di una dimostrazione dell’impossibilità di una filosofia scientifica (in senso forte o standard) o dell’insensatezza di tale problema. Tale problema, invece, è stato semplicemente messo da parte. Come si spiega tutto questo? Il paradigma stesso sembra fornirci una ragione di questo fatto. Un filosofo analitico, infatti, ritiene che una ricerca filosofica è affrontata con serietà se è adeguatamente circoscritta e cerca di rispondere a uno specifico aspetto di un problema. Questa ricerca specialistica, come ci ricorda Marconi, non può contenere il retroterra, solitamente vasto, di quel particolare dibattito, ma deve per forza presupporlo. Su questo punto vorrei sottolineare un’importante distinzione. Ciò che viene presupposto può essere locale o globale. Per premessa locale intendo una tesi che in quella specifica ricerca è presupposta, ma in altre occasioni è solitamente dibattuta. Per premessa globale, invece, intendo una tesi che è presupposta in ogni dibattito. Identificare quali siano i presupposti globali in filosofia analitica non è un compito facile, ma il sussistere di tale difficoltà non implica negare l’esistenza di tali presupposti. Se uno accetta la natura paradigmatica della filosofia analitica sostenuta da Marconi, e io concordo su questo punto, allora sembra piuttosto ragionevole ritenere che esistano dei presupposti globali. Questo deriva dalla natura stessa di paradigma, ed è lo stesso Marconi a evidenziare questo fatto quando ci ricorda che il lavoro dei filosofi analitici «dipende da assunzioni sostanziali». Una ricerca filosofica in ambito analitico, dunque, è essenzialmente connotata da presupposti locali e globali. A questo punto sorge la domanda: è possibile cercare di risolvere il problema della mancanza di una filosofia scientifica (in senso forte o standard) basandosi su presupposti locali e globali? Un problema di questo tipo, che mette in discussione la natura stessa della filosofia, non sembra potersi permettere di presupporre alcuna tesi. Proprio quelle tesi che ingenuamente diamo per assodate, infatti, potrebbero rivelarsi decisive per la nostra ricerca. Si potrebbe ritenere che sia possibile vagliare pazientemente i presupposti locali e, almeno a livello comunitario, superare questa problematicità. Nel caso dei presupposti globali, invece, questo non sembra attuabile a meno di non uscire dal paradigma. Queste considerazioni, quindi, ci mostrano che il paradigma della filosofia analitica e un’interrogazione sulla mancanza di scientificità della filosofia (in senso forte o standard) non sono molto conciliabili tra loro. Questo sembra dunque rendere conto (almeno in parte) del perché una tale interrogazione venga spesso trascurata.

A questo punto sembra vi siano due strade percorribili. La prima consiste nel rinunciare ad una filosofia scientifica (in senso forte o standard) e attribuire alla ricerca filosofica il più modesto compito scientifico di una scrupolosa classificazione delle diverse tesi e argomentazioni per ogni possibile problema di rilevanza filosofica, affrontabile all’interno del paradigma. Scegliere di percorrere questa strada avrebbe però l’effetto di limitare l’insieme delle domande filosofiche su cui ci si possa seriamente interrogare. E rinunciare ad affrontare alcuni dei più classici problemi che hanno interessato i filosofi nel corso della storia vuol dire limitare la nozione stessa di filosofia. Non credo che questo sia di per sé un problema, ma nel caso in cui si volessero avviare programmi di ricerca che ambissero ad affrontare questioni come la mancanza di scientificità della filosofia, allora sembra opportuno tenere conto di questi limiti del paradigma analitico. Se le nostre considerazioni sono corrette, bisognerà allora trovare modalità di ricerca alternative a quelle paradigmatiche della filosofia analitica per affrontare tali questioni, e ampliare così le domande filosofiche su cui ci si possa seriamente interrogare. In questo senso l’asserzione iniziale trova una sua giustificazione: condividere molte delle tesi del testo di Marconi può non implicare un’adesione completa al paradigma della filosofia analitica se si intendono affrontare quelle questioni che non sembrano essere facilmente conciliabili all’interno del paradigma, e forse lo stesso Marconi condividerebbe questo punto.

Come trovare queste modalità di ricerca alternative? Alcuni potrebbero pensare che le “scuole filosofiche” di orientamento continentale, come ad esempio quelle che si rifanno all’ermeneutica o alla fenomenologia (nelle sue più svariate accezioni), rappresentino già queste modalità di ricerca alternative. All’interno di queste correnti filosofiche trovano ampio spazio riflessioni sulla natura della filosofia, sulla sua scientificità, e in generale trovano spazio riflessioni sui cosiddetti grandi problemi. Questo è certamente sostenibile, ma queste “scuole filosofiche” incarnano esse stesse dei paradigmi di ricerca. Gli studiosi, infatti, basano spesso le loro riflessioni filosofiche su sostanziali assunzioni metodologiche. Anche in questo caso identificare quali siano i presupposti non è un compito facile, ma sembra ragionevole che tali presupposti esistano quando, ad esempio, gli studiosi ricorrono all’autorità di uno o più filosofi per portare avanti un discorso filosofico di più ampio respiro o intrecciano analisi concettuale con storia delle idee per fornire una riflessione critica su alcuni importanti sviluppi del pensiero filosofico. Per queste ragioni, tali programmi di ricerca rappresentano dei paradigmi alternativi, a mio avviso non meno meritevoli di essere perseguiti del paradigma analitico (questo andrebbe certamente motivato, ma ci porterebbe ora fuori strada), ma non offrono delle modalità di ricerca alternative nel senso da noi ricercato. Lo studio della storia della filosofia, invece, sembra rappresentare un valido punto di partenza per perseguire i nostri scopi. Tale studio, infatti, è ragionevolmente utile per almeno due principali ragioni. Da una parte ci può servire per indagare la genesi e la costituzione di un certo paradigma. Questo può essere utile per svelare eventuali presupposti celati e capire quali siano i loro punti di forza e i loro limiti. Dall’altra parte la storia del pensiero rappresenta un ricco serbatoio di prospettive filosofiche radicalmente diverse tra loro, la cui radicalità spesso riguarda il modo con cui si affrontano certi problemi filosofici piuttosto generali e inter-paradigmatici. In questo senso lo studio della storia è utile in quanto ci offre un insieme di proposte teoriche che hanno come oggetto d’indagine proprio quelle questioni che non sembrano essere facilmente conciliabili all’interno del paradigma. È bene precisare che la tesi qui suggerita riguarda solamente l’utilità della storia della filosofia e non si tratta di una tesi in favore della sua sufficienza o della sua necessità per perseguire queste modalità di ricerca alternative. Queste considerazioni sulla storia della filosofia, inoltre, vogliono offrire solo qualche spunto di riflessione e non hanno la pretesa di essere esaustive. Ciononostante ci mostrano un valido punto di partenza per affrontare quei limiti imposti dalla connotazione paradigmatica della filosofia analitica.

Vorrei concludere questo breve contributo soffermandomi su un tema implicitamente sempre presente nel lavoro di Marconi, ossia sulla cosiddetta distinzione analitici-continentali. Mentre credo che vi siano buone ragioni per affermare tale distinzione, non penso che ve ne siano per affermare una contrapposizione di principio tra analitici e continentali. Sono piuttosto convinto che se a un umano, troppo umano, senso di appartenenza a questo o quel paradigma si accompagnasse un’inclinazione, forse un po’ autolesionista, a mettere in continua e radicale discussione la propria pratica filosofica, allora si aprirebbero le strade per recuperare un po’ quella vitale meraviglia e ingenuità di colui che si affaccia per la prima volta alla riflessione filosofica.

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