Se, kantianamente, il mondo è destinato a risolversi in un “oggetto di possibile esperienza”, cessa ipso facto di essere oggetto di un’esperienza propria e diretta, consegnando l’uomo al numerus clausus dell’esperienza intesa come l’empiria artificiale del laboratorio o – ma è l’altra faccia della medesima medaglia “moderna” – alle esperienze già fatte o snaturate dal primato dell’attesa. Da qui, contro il primato odierno del sentito dire e/o del dimostrato (quasi che il Geist fosse di casa solo in qualche sperduto laboratorio statunitense), come pure dell’atteso e del fittizio come indispensabile componente della realtà, deriva questa apologia della “prima impressione”, questa valorizzazione di quelle che potremmo definire le esperienze “involontarie” della nostra vita: esperienze per le quali la forma mentis dominante non ha (più) gli strumenti esplicativi.

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