Riflessioni su Homo videns di Giovanni Sartori

 

Homo videns,1 di Giovanni Sartori, non è (né, direi, vuole essere) un testo di filosofia: esso costituisce una critica della comunicazione, della politica, e in breve della vita centrata sul «tele-vedere», ma qui “critica” vuol dire “biasimo” e non “studio circa i presupposti e le condizioni di possibilità”.

Tuttavia il libro si basa su alcune esplicite prese di posizione di carattere filosofico, e offre degli spunti interessanti per una riflessione non strettamente sociologica o scientifico-politica. Non discuterò quindi le tesi che l’autore sviluppa nella seconda e nella terza parte su come la televisione e i nuovi media influenzano la consapevolezza e la partecipazione da parte dell’individuo in rapporto alla vita pubblica, né ciò che egli dice su come una paidèia basata su questi strumenti, o arresasi a essi, deteriora il livello culturale di una società. Tali tesi sono argomentate con acume e scrupolosamente documentate, e conservano un’oggettiva rilevanza nonostante la verve polemica che le anima spesso degeneri in invettiva reazionaria; ma, comunque sia, questa non è la sede per prenderle analiticamente in considerazione. Ciò su cui invece vorrei imperniare alcune considerazioni è il conflitto che Sartori delinea tra “vedere” e “capire” nella prima parte del suo libro.

L’affermazione che sussista un tale conflitto, che il dilagare del vedere nei mezzi di comunicazione tecnologicamente più avanzati metta di per sé in serio pericolo la nostra capacità di capire, impegna Sartori su un terreno propriamente filosofico, ed egli non esita a chiamare in causa in proposito opposte concezioni teoretiche come quella del sensismo e quella di Kant (cfr. p. 23). Cerchiamo allora di capire in dettaglio di cosa si sta parlando.

Sartori scrive: «Fino ad oggi il mondo, gli eventi del mondo, ci venivano raccontati (per iscritto); oggi ci vengono fatti vedere, e il racconto (la loro spiegazione) è quasi soltanto in funzione delle immagini che appaiono sul video» (pp. 13-14). E questo, egli afferma, è un problema, perché «tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intellegibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensiblis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e cancella i concetti; ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di comprendere» (pp. 22-23). Kant serve dunque a Sartori per dire, contro il sensismo e le sue possibili variazioni, che il concetto è necessario per dare ordine al materiale percettivo e permettere il realizzarsi di una conoscenza che possa chiamarsi tale.

Homo videns, Sartori, cover

Ma Sartori si spinge oltre, ed ecco il conflitto tra vedere e capire: la sfera del concettuale, che è la sola sfera in cui si produce il sapere, il comprendere, è radicalmente altra da quella del visibile. In un’appendice Sartori precisa: «Il conoscere per concetti (il conoscere in senso forte) si dispiega tutto quanto oltre il visibile» (p. 149). Siamo dunque già piuttosto lontani da quanto Kant diceva sul modo in cui sensibilità e intelletto, in un gioco di complementarità, concorrono a rendere possibile la conoscenza: le intuizioni senza concetti sono cieche, i concetti senza intuizioni sono vuoti (cfr. Critica della ragion pura, A51/B75).

Sartori stesso ammette nozioni di conoscere e capire in senso debole che ritiene «applicabili anche al mondo percepito dai sensi» (p. 147). Questo rivela però una confusione da parte sua: una confusione, in particolare, tra la possibilità di comprendere ciò che vediamo e la pretesa di comprendere solo vedendo. Per protestare contro la seconda, egli getta alle ortiche anche la prima, senza avvedersi che sono due cose ben diverse. Certo, senza la parola, senza il concetto, il comprendere non inizia nemmeno: ma cosa mai possiamo voler comprendere se non ciò appunto che vediamo o altrimenti sentiamo?

Che i concetti siano astratti – che non si possa mai imbattersi, dietro l’angolo di una strada, nell’idea di giustizia o di eguaglianza, o, se è per questo, di cavallinità – non vuol dire che per comprenderli «in senso forte» si debba chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie. La parola “giustizia” ha senso perché ci sono situazioni giuste e situazioni ingiuste, la parola “eguaglianza” perché si può fare esperienza di rapporti di reciprocità e di subordinazione. E se pure è innegabile che vedere qualcosa senza saperlo qualificare verbalmente vuol dire davvero fermarsi al di qua della comprensione di quel qualcosa, tuttavia la comprensione è sempre comprensione di qualcosa che è anche visibile o altrimenti sensibile.

Se quindi è legittimo constatare che, per via di contingenze riconducibili, per esempio, al mercato, è diffuso un certo modo di fare televisione che davvero indebolisce la capacità da parte del pubblico di pensare criticamente e scoraggia ogni suo atteggiamento di sana curiosità verso le manifestazioni più nobili dello spirito umano, d’altro canto è priva di fondamento la tesi secondo cui la comprensione del visibile che lo schermo può offrire è «costitutivamente insufficiente» (p. 27). Lo schermo, infatti, può anche parlare, a voce o per iscritto, e proprio per mezzo del concorso di parola e immagine può veicolare una genuina comprensione delle cose. Quel costitutivamente è il punto dove Sartori si fa prendere la mano dallo slancio retorico e perde un’occasione di essere all’altezza di se stesso, di quel se stesso in particolare che formula la frase successiva così: «Se in futuro verrà in essere una televisione che spiegherà meglio (molto meglio), allora il discorso su una integrazione positiva tra homo sapiens e homo videns si potrà riaprire. Ma al momento resta vero che non c’è integrazione ma sottrazione, e cioè che il vedere sta atrofizzando il capire» (ibid.).

Sartori sa molto bene che una televisione che fa capire è possibile. A ciò io vorrei aggiungere che, anzi, una televisione che non fa affatto capire non è affatto possibile. (Nella misura in cui questo è vero, lo stesso può dirsi per internet.) È solo accidentalmente, e non costitutivamente, che gli schermi, all’epoca dell’uscita di Homo videns e probabilmente anche oggi, vent’anni dopo, comunicano male anziché bene. Essi infatti, lungi dal trasmettere un flusso di pura visibilità di cui, da anti-sensisti, dovremmo chiederci se sia anche solo pensabile, comunicano, trasmettono una comprensione, un sapere: e precisamente per questo, e per il fatto che questa comprensione può essere migliore o peggiore, ha senso riflettere con Sartrori su come fare per trasformare gli schermi in alleati, anziché in nemici, nella battaglia per una società più informata e intelligente.


1 G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 2011.

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