Vorrei spiegare innanzitutto quali sono le ragioni per cui ho sentito il bisogno di affrontare questo tema che per molti versi è lontano dai temi consueti del mio lavoro. A dire qualcosa sull’eutanasia mi hanno spinto due sensazioni elementari: una sensazione di disagio e una sensazione di fastidio.

Il disagio innanzitutto: di questo tema che ci riguarda così da vicino sembra possibile discutere solo legandolo a situazioni individuali, a casi umani drammatici che ci impediscono di ragionare in astratto e che ci costringono a piegare il problema ad una miriade di questioni particolari, come se per decidere qualcosa in merito fosse necessario addentrarsi nelle vicende dolorose, e diverse, che si nascondono dietro i nomi di persone reali – Chantal Sébire, Eluana Englaro, Piergiorgio Welby – o di personaggi di libri e film come Million dollar baby, Le invasioni barbariche o Il mare dentro. Ragionare sempre e soltanto a partire da esempi è rischioso: ci spinge a guardare i rami e a perdere di vista il bosco.

Il fastidio è più soggettivo, ma non è per questo, credo, immotivato: di questo tema si dovrebbe discutere razionalmente e invece molto spesso si tende a chiudere la porta al dialogo, a rifiutarlo dicendo ora che si tratta di una “questione di coscienza”, come se delle questioni di coscienza non si dovesse discutere ma ognuno dovesse accontentarsi di quello che gli par vero e avesse il diritto di difenderlo semplicemente rifiutandosi di ascoltare le ragioni che non gli piacciono, ora invece pronunciando verdetti di condanna che servono solo per dire che la questione è già decisa e che l’interlocutore non è in fondo moralmente degno e non merita quindi di essere ascoltato. Un esempio per tutti: si è detto, e da fonti autorevoli, che l’eutanasia è il frutto avvelenato di una “cultura della morte”, e parlare di una cultura della morte significa in questo caso sostenere che nella modernità vi sono società e uomini che possono pensare che la morte sia in fondo un valore e che l’omicidio sia in qualche modo legittimo. Il corollario ovvio è che un dialogo non è possibile: si può al massimo pronunciare una condanna o, nella migliore delle ipotesi, un invito ad abbandonare un insieme di posizioni che si ritengono semplicemente false.

Di dialogo invece c’è bisogno e questo bisogno nasce paradossalmente proprio dal fatto che non abbiamo più una “cultura della morte”…

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