Le opere dell’artista Antje Stehn esposte presso il Cortile Farmacia dell’Università degli Studi di Milano in occasione della Notte dei Filosofi.

Amaca con soffioni

Silvia Sasso

Amaca con soffioni Antje Stehn

Ho iniziato a notarli dopo averne visti così tanti in un posto così insolito per loro – un’amaca. Non so perché mi sembrasse strano. In fondo, anche le erbacce hanno diritto ad un po’ di riposo, fosse anche solo per conforto al fatto che affibbiamo loro sempre quel dispregiativo di categoria: deve essere dura.

Ho iniziato a notarli in giro, dicevo, e posso dire che spuntano praticamente ovunque: nelle grandi distese, ovviamente, ma anche ai bordi delle piste ciclabili o nelle isole del traffico. Ai soffioni basta poco, qualche centimetro quadrato di terra nelle crepe del quotidiano, per sollevarsi in una sfericità delicata ma perfetta, ricca di possibilità.

Mi sembra che presentino in tutto ciò delle caratteristiche simili a quelle proprie dei processi immaginativi e della poesia. Le piccole radici traggono nutrimento da questo mondo qui e sostengono con steli concavi il tappeto più fragile che si possa trovare in un prato, un tappeto sospeso ad un altro livello. Non impongono forme stabili o definitive; offrono piuttosto batuffoli di proposte. Basta che il vento soffi un po’ più forte, o che qualcuno ceda alla tentazione a cui invitano anche le bolle di sapone perché quei ciuffetti accettino il loro destino. Allora i soffioni lasciano andare ogni seme, ma non in modo sbrigativo. Forniscono a ciascuno un piccolo paracadute, per rendere più dolce l’atterraggio.

Là dove questi cadranno, forse, nascerà un nuovo gioco, spunterà una nuova possibilità d’ascolto. Assumere la postura di attenzione che richiedono, però, non è semplice. Certo, ci sono momenti in cui è più facile notare i fiori di tarassaco: dalla sfacciataggine del giallo e dalle occasioni poetiche più appariscenti siamo agguantati immediatamente (ci sarà pure un motivo se i nostri eroi vengono chiamati anche denti di leone). In altri momenti, invece, fanno di tutto per approssimarsi alla trasparenza. Occorre uno sguardo ancora diverso per scorgerli, una disposizione particolare per accovacciarsi. Sono opportunità da raccogliere.

In quest’opera è stato fatto, eccome. Dall’amaca su cui poggiano sembrano dire: «Accomodati, sperimenta la nostra sospensione. Stenditi e ascolta, in un modo un po’ diverso da quello a cui sei abituato fra le tue coperte.»

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Uova nell’uovo (qualche pensiero)

Andrea Raimondi

Uova nell'uovo Antje Stehn

«Ogni porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante, come uno stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro dell’animale, ogni goccia dei suoi umori, è ancora un tale giardino o un tale stagno.» Così scriveva Leibniz nella Monadologia, e qualcosa di simile credo sia rintracciabile anche nell’opera di Antje Stehn: l’analisi del complesso trova il proprio fondamento nel semplice, ma la struttura del semplice rimanda al complesso, in un circolo infinito di rispecchiamenti.

Un grande uovo è stato aperto per svelare il suo contenuto: numerose piccole uova, ammassate le une sulle altre. Siamo invitati a immaginare che il sistema di rispecchiamenti continui anche dentro le uova: queste custodiscono altre miniature di se stesse, dando forma così ad un’armonica successione a incastro che sembra alludere alla possibilità di una sua continuazione anche oltre i confini dell’opera che la rappresenta, verso l’esterno. Uova nell’uovo è quindi una soglia immaginativa tra l’infinitamente piccolo (che è dentro le uova che vediamo) e l’infinitamente grande (che è ciò che ci contiene).

Un grande, accogliente uovo: un ventre materno e fertile che ospita in sé nuove vite, le culla e le protegge. Eppure, un sottile filo d’incertezza attraversa l’abbraccio delle piccole uova, un abbraccio che sussurra a denti stretti: «Non lasciarmi, o cadrò». Le loro minute preghiere – un fruscio, un rumore bianco continuo – sono rivolte ai propri fragili gusci e alla parete che sembra trattenerle a sé, ma non per molto. La minaccia di un improvviso collasso è il severo monito della natura, che mette in scena così la propria cieca accidentalità, la propria mancanza di un fondamento oltre se stessa.

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Mantello di terra

Roberto Rossi

Mantello di terra Antje Stehn

La terra sta sempre sotto i piedi e, quando ce l’hai addosso, è perché per te dovrebbe essere finita.

A quanto pare no.

Un mantello di terra è comunque cosa strana – così ho pensato, mentre lo guardavo per la prima volta – ma, forse, è il miglior modo per prendere confidenza con il suolo e cominciare a percorrere la strada. Sì, il mantello di terra è l’indumento migliore per un buon viaggiatore, un camuffo perfetto per le divinità in incognito.

Se vi piace il romantico Wanderer, sentirvi un tutt’uno con il paesaggio in cui vi immergete, sfidare la sorte e l’ignoto, un mantello di terra è quanto di meglio possiate desiderare.

Insomma, un mantello di terra è soltanto l’inizio. E via ad andare.

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Il vestito di sale

Alessandro Freno

Vestito di sale Antje Stehn

Il dio rispose alle sue preghiere in un giorno di primavera: il giovane fattore ora sapeva cosa fare. Camminò per due giorni e due notti, tanto distava il mare dalla sua collina. Si chinò sulla rena, riempì tante otri d’acqua quante ne poteva portare la mula e riprese a salire verso le terre fertili. Riversò l’acqua marina nel grande abbeveratoio – e attese. Antea lo osservò dalla casa, e non chiese perché. Da un anno il suo giovane sposo giaceva nei campi e trascurava le bestie. Da che Antea aveva vinto il brutto male che quasi le tolse la vista, il giovane fattore aveva perso interesse per le cose del mondo, e solo di lei aveva cura. Le vene di Antea si riempirono dunque di gioia a vederlo di nuovo intento in qualcosa, per quanto strano fosse quel lavoro.

Il fattore lo terminò una notte: tra i vestiti di Antea scelse il più gioioso e lo immerse nel sale estratto dall’acqua marina, secondo le parole del dio. Spogliò delicatamente la sposa, ché non si svegliasse, e la vestì del vestito di sale. Solo così, aveva detto il dio, i giorni non avrebbero più contato per Antea. Solo così non avrebbe più conosciuto tempo e malattia: sarebbe rimasta sempre la sua giovane sposa vestita di sale. Tanto grande e tanto meschino era l’amore del giovane fattore.

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La giacca di spine

Bianca Dall’Osto

La giacca di spine Antje Stehn

Guardo la Giacca di spine e sento un’inaspettata empatia.

Primo – violento – impatto visivo: spine.

Spine aguzze e spesse. Poi, un pizzo prezioso ed intrigante. E avverto la purezza e la semplicità.

Penso: tutti i gioni, si indossa una giacca di spine; o meglio: la giacca di spine ci rappresenta.

Anime buone cercano di crearsi ingenuamente una protezione, una barriera per allarmare e scoraggiare tutto quello che le circonda.

Spinose sono le paure, le insicurezze, le incertezze: il dubbio che ci accompagna, in ogni momento, in ogni passo.

Le spine sono reali, naturali, e accompagnano spesso ciò che è delicato.

I fiori hanno spesso le spine. Petali morbidi, delicati e profumati, protetti da piccole spine taglienti. Ha spine la rosa, ma anche il cardo, ispido anche nei suoi petali. E ha spine il carciofo, dove le prime foglie pungenti nascondono un dolce e succulento cuore.

La castagna alla brace, in autunno, che all’improvviso si butta giù dall’albero.

Il riccio di mare, innocente guerriero nell’immaginaria battaglia di piedi ignari e di scogli.

E infine il cactus succulento – si chiamano così, in tedesco, le piante grasse. Una pianta inusuale, quasi buffa – circondata da distese desertiche, torride, aride e ostili. Dentro di sé conserva una sorpresa splendida: l’acqua, la vita.

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Sfera di soffioni

Federica Cavalletti

Sfera di soffioni Antje Stehn

Uno dopo l’altro, leggeri, piccoli globi setosi si levano nell’aria. Sono soffioni. Oppure pensieri? Ruotando si cercano, si toccano fra loro, poi si allineano in lunghe collane. Asticelle metalliche li raccolgono, li distendono; poi si curvano sinuose e si uniscono alle punte, come le mani che una ballerina unisce sopra al capo. È nata una sfera di soffioni, una sfera di infinite sfere.

La luce che la trapassa si fa morbida, vitale. Eppure qualcosa in lei sfida la forza di chi guarda, smuove un’inquietudine profonda e sembra interrogare: chi sei tu, e cosa vuoi?

Mi giro verso Antje, ansiosa. «Mi colpisce l’assurdo di questa molteplicità», dice lei. «Ciascuno di questi soffioni porta un numero incredibile di semi, e ciascuno di questi semi è l’ipotesi di un albero; eppure non è possibile che ogni seme diventi albero». Non è possibile che ogni seme diventi albero. Immediatamente comprendo.

La sfera di soffioni è l’affastellarsi dei pensieri che cozzano e si sovrappongono, fino a cristallizzarsi, quando con angoscia guardiamo dentro e davanti a noi. È la paralisi dei nostri progetti, delle nostre idee in seme, quando la mente non è più in grado di ordinarli. Ogni batuffolo è un grumo di aspirazioni. Sediamo in una stanza, domandandoci chi siamo. Sviluppiamo una risposta, formuliamo un autoritratto e con uno sbuffo un soffione si solleva davanti ai nostri occhi. Riflettiamo ancora qualche istante e tanti, troppi soffioni hanno già invaso la stanza, fluttuanti e scomposte identità possibili. La sfera immobile ha parlato. Ciascuno dei soffioni è il seme di una vita possibile. Ma non è possibile che ogni seme diventi albero.

Improvvisamente, però, la sfera gira. La luce ha illuminato quello che avevo dimenticato: le asticelle. Che del turbine dei soffioni fanno armonia. Le asticelle nere che li sostengono rivelano ora il nero flessuoso delle loro curve, le curve dinamiche di una mente forte che diventa in grado di mettere mano ai propri pensieri, di connetterli; finalmente di ordinarli. Non vedo più caos ma equilibrio, stuttura.

Torniamo a sederci nella nostra stanza e apriamo gli occhi su un futuro da agguantare. Il nostro sguardo può ora appuntarsi su un soffione carnoso e bianchissimo, il soffione che abbiamo scelto, che spicchiamo dagli altri come un acino da un grappolo d’uva. È questa l’ipotesi che noi vogliamo coltivare con dedizione. La sfera conserverà le altre, che sono le sfumature del nostro carattere e delle nostre passioni; esse ci arricchiranno e saranno lo sfondo della nostra vita, finché non vorremo scegliere di farne la nostra vita.

La sfera di soffioni ora quasi splende, sospira serena e invita; la luce saltella sui suoi tanti globi.

La sfera adesso è ricchezza, non eccesso; grida determinazione, non minaccia.