Storie di un nuovo vecchio uomo
Riflessioni su Homo videns di Giovanni Sartori
Sono trascorsi vent’anni dalla pubblicazione di Homo videns (1997), testo del sociologo fiorentino Giovanni Sartori (1924-2017). Motivo di interesse per questo ventennale non è la triste coincidenza con la recente morte del suo autore, bensì la notevole attualità del quadro che allora Sartori andò a delineare con questo suo testo. Nell’analizzare la società di vent’anni fa, difatti, Sartori giunse a raccontare una storia che, oggigiorno, pare ancora un’ottima cornice per interpretare gli eventi politici e sociali. Sotto quali aspetti questa narrazione è dunque meritevole di attenzione?
Prima di procedere, è opportuno fare una premessa. Nelle argomentazioni socio-politiche, difatti, non è insolito inscrivere le proprie considerazioni entro una linea di sviluppo antropologico più generale. Hobbes impiegò il latineggiante «homo homini lupus» per dedurre la condizione di stallo tra gli individui entro lo Stato di Natura, dando ragione al patto costitutivo del Leviatano; e, se per analizzare la crisi economico-sociale del Capitalismo Marx dispose del paradigma della «lotta di classe», Max Weber rilesse il medesimo fenomeno attraverso la categoria socio-spirituale della «secolarizzazione», traendone conclusioni ben differenti.
Considerando perciò tali cornici narrative in quanto:
- parte integrante di argomentazioni proprie dell’ambito socio-politico;
- non pregiudizialmente inficianti la pretesa di scientificità o razionalità delle stesse;
si può sottoporre la linea di sviluppo tratteggiata da Sartori a un’analisi teorica atta a considerazioni di ordine non esclusivamente retorico, ma genuinamente filosofico.
La cornice che emerge dalle pagine di Homo videns è esplicitamente illustrata nei capitoli 5 e 7 della seconda parte del testo:1 il primo consta della genealogia di due generi umani,2 basata sull’opposizione tra il baconiano «regnum hominis» e la vichiana specie degli «uomini bestioni»; l’altro verte invece sulle categorie di «razionalità» e di «post-pensiero». Le due opposizioni, invero, sono introdotte per intrecciarsi a più riprese nel corso dei due capitoli.
Il «regnum hominis» di Bacone, infatti, è il dominio sulla natura da parte dell’uomo tecnologico; egli è tale grazie alla sua capacità razionale e scientifica. La grande utopia baconiana, tuttavia, poggia sul problematico assunto di considerare l’uomo un animale già razionale, anziché concepire tale razionalità come una potenzialità di sviluppo che egli, al più, è tenuto a coltivare.3 Negato l’assunto, dunque, la tecnologia è capace di avere il sopravvento sul suo costruttore e di privarlo dell’autonomia nel porre da sé i fini da perseguire, o di riconoscere quale sia il proprio utile effettivo.4
L’idea è circolante già dai primi anni del Novecento;5 tuttavia la rivoluzione digitale, che sul finire degli anni Novanta era solo agli albori, ne richiese una riproposizione urgente. Infatti, secondo Sartori, la libertà offerta allo spettatore e al cibernauta da schermo, telecomando e tastiera si ridurrebbe a una semplice maggior velocità di accesso nei confronti di una sempre maggior quantità di stimoli e di informazioni. Il tutto al prezzo di inibire la capacità di comprensione del loro fruitore; si voglia per la natura visiva del contenuto, si voglia per la rapidità di successione, gli utenti si troverebbero costretti a una posizione passiva che ne stordirebbe la facoltà intellettiva, la stessa facoltà che leibnizianamente starebbe alla base di quella «spontaneitas intelligentis» che è, appunto, la libertà umana.6
Il digitale e il visivo, se adottati acriticamente come principale strumento di educazione di una comunità, renderebbero gli uomini di cui essa è composta inabili al sapere, depositari di un guazzabuglio di esperienze seconde, prive di qualsiasi complemento concettuale intrinseco tale da rendere il proprio spettatore capace di controllo su quanto fruito.7 Insomma, essi sarebbero una tecnologia che andrebbe ad atrofizzare i fondamenti della stessa possibilità tecnica: il che, in questo quadro pseudo-baconiano, farebbe dell’Homo videns una categoria antropologica propria di una linea di sviluppo regressivo. Non a caso, la comparazione che viene in mente a Sartori è quella con gli «uomini bestioni» di Vico che, nella linea di sviluppo progressiva del filosofo partenopeo, sono antecedenti (quindi inferiori) all’uomo civilizzato.8 Il paradosso che sorgerebbe, qualora si fosse vichiani o baconiani in senso stretto, sarebbe perciò quello di indicare un fenomeno tecnologico e civilizzante «nuovo» con una categoria propria dell’uomo «vecchio», pre-civile.
Sartori però non cade nella contraddizione, e qui viene l’aspetto interessante della sua provocazione dalle tinte rétro.9 Infatti, egli si rifiuta di identificare la linea di sviluppo progressivo con l’andamento cronologico-fattuale della storia.10 La linea di sviluppo è difatti impiegata dal politologo fiorentino non come un mezzo descrittivo, bensì come strumento valutativo per giudicare, di volta in volta, il valore degli eventi nuovi a cui l’umanità va incontro.
La rinuncia a questo specifico mezzo concettuale implica, a suo avviso, la acritica accettazione di qualunque elemento «nuovo», in quanto naturale superamento del momento «passato», rendendo la novità una neutra postposizione di un evento all’altro. Il rifiuto e la condanna della linea di sviluppo intesa in senso valutativo sono perciò, in quest’ottica, l’anima della postmodernità; nonché, sono la porta di accesso al post-pensiero, cioè alla rinuncia di valutare un sapere in rapporto a un altro, equiparando l’autorità della conoscenza intellettuale a quella dell’esperienza sensibile poiché tale a-valutazione sarebbe più egualitaria, democratica e popolare.11
Il prezzo di un’acriticità simile è però quello di spingere la democrazia, come i bestioni vichiani, alle soglie di un nuovo Diluvio Universale, facendone la protagonista di una tragica distopia in cui essa diverrebbe la causa della propria stessa fine, nonché di quella dell’Homo sapiens che l’ha costituita progredendo di generazione in generazione – non senza inciampi.
E, aggiungerei, non senza errori di valutazione.
1 G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 99-104, 111-116.
2 Due generi in senso culturale, non biologico: cfr. ivi, p. 8.
3 Ivi, p. 100.
4 Ivi, p. 99.
5 Sartori cita The Machine Stops (1909) di E.M. Forster, ma al contempo è la semplificazione della «burocratizzazione» weberiana conseguente alla già citata «secolarizzazione» (ibid.).
6 Ivi, p. 102.
7 Ivi, p. 101.
8 Ivi, p. 103.
9 Tinte che, personalmente, osservo con non poca preoccupazione, per le medesime ragioni esposte nel precedente intervento di Michele Lavazza su Spazio Filosofico, sempre a proposito di Homo Videns. La mia replica a questi toni è una domanda: davvero la cultura tele-visiva e digitale impedirebbe il sorgere di strumenti razionali e critici propri, eterogenei rispetto a quelli di una cultura esclusivamente intellettuale?
10 Ivi, p. 111.
11 Ivi, p. 112.