Almeno da Kant in poi la questione filosofica del limite (inteso primariamente come limite del conoscibile, e poi del pensabile, del dicibile e così via a seconda dei punti di vista e delle interpretazioni) si è imposta come questione difficile da ignorare. In estrema sintesi: se vi è un limite a ciò che è accessibile alla nostra conoscenza, come possiamo definirne la collocazione senza oltrepassarlo? Se il conoscere è condizionato, questo può essere detto sensatamente e veridicamente senza pretendere di uscire dal campo di quella condizionatezza? Se sono necessarie alcune strutture (esperienziali, logiche o linguistiche) per rendere possibile l’esercizio della filosofia, come si può filosoficamente tematizzarle senza né uscire da esse, il che equivarrebbe a togliersi il terreno di sotto i piedi, né ridurle dalla posizione dell’atmosfera in cui la filosofia deve respirare a quella di semplici oggetti immersi in quell’atmosfera?

Il problema e le proposte per la sua soluzione hanno ovviamente una storia lunga e interessante. Qui propongo di affrontare la questione attraverso due vie d’accesso, offerte l’una da Husserl, l’altra da Wittgenstein, in due passi molto brevi, che tratterò più come rilevanti risposte teoriche che come oggetti di un’analisi storica.

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